Vince la rendita, il Paese fallisce


Le facce degli studenti che dormono nelle tende perché stanchi di pagare 600 euro al mese per una stanza singola le abbiamo già viste tutti. I volti di chi incassa quei 600 euro, invece, ancora no. Peccato, perché sarebbe utile ascoltare anche le loro storie: potrebbero raccontare come hanno fatto a conquistare appartamenti così redditizi o spiegare quando hanno capito che si possono guadagnare anche duemila euro al mese con un trilocale in semi-periferia. Probabilmente però non sarebbero grandi storie: a occhio ricorderebbero un po’ la favola del contadino che si è ritrovato nel pollaio la gallina dalle uova d’oro, senza particolari meriti (e nemmeno demeriti, almeno finché l’avidità non lo spinge a squartarla e perdere così il suo tesoro). Ma se parlassero anche loro – i proprietari – allora avremmo un’immagine più completa del grande guaio immobiliare in cui si è cacciata l’Italia in compagnia di decine di nazioni dalle economie “avanzate”: il guaio di avere lasciato che il Paese si dividesse in due. Da una parte quelli che hanno le case, dall’altra quelli che le vogliono.

Adesso sono gli studenti nelle tende. Pochi mesi fa le famiglie con bambini in fuga da una Milano da almeno 5mila euro al metro quadro. Da mesi sui media va avanti la cronaca della disuguaglianza immobiliare che raccoglie massicci consensi sui social network. L’impennata dell’inflazione ha fatto esplodere una questione che montava da anni: in tante città, non solo quelle grandi, per chi non ha una casa di proprietà il prezzo dell’abitare è diventato proibitivo.

Non è un problema solo delle famiglie considerate “povere” secondo i parametri Istat (quasi tre milioni), ma anche di famiglie della semi-estinta classe media: persone che lavorano, hanno stipendi anche buoni e figli (magari “addirittura” tre o più). Chi non ha comprato una casa qualche anno fa, quando i prezzi erano ancora abbordabili – o almeno ragionevoli – oggi se non dispone grandi patrimoni famigliari o eredità sostanziose rischia di essere inesorabilmente escluso dal mercato immobiliare. Decine di migliaia di abitazioni “normali” sono diventate economicamente inaccessibili per famiglie “normali”.

Così è in atto da tempo, senza molto clamore, un enorme trasferimento di denaro dai conti bancari dei “senza casa” a quelli dei “proprietari”, sotto forma di acquisti (con mutuo) di abitazioni a prezzi stellari o di affitti così sproporzionati rispetto agli stipendi da uscire dalla categoria della decenza. Solo nel 2021, secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate e del Dipartimento delle Finanze, la spesa per l’acquisto di abitazioni ha superato i 115 miliardi di euro, quella per locazioni con cedolare secca è stata di 18 miliardi di euro.

«È il mercato» dirà qualcuno, con un sottinteso invito a rassegnarsi a questo drenaggio di risorse. Uno studio pubblicato a febbraio dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano ha ricordato come negli ultimi cinquant’anni il lavoro ha perso peso sul totale dei redditi degli italiani (ora è sotto il 50%) a vantaggio delle rendite immobiliari (vicine al 13%). È una tendenza comune a diverse nazioni “ricche” ed è una deriva pericolosa, ricordano i ricercatori: più in un sistema economico si lascia spazio alle rendite più aumentano le diseguaglianze e più si riducono gli investimenti su nuove attività produttive capaci di generare crescita. Gli economisti Daron K. Acemoglu e James A. Robinson hanno mostrato come il successo dei rentier, quelli che vivono di rendita, a scapito degli imprenditori che innovano abbia segnato il tramonto economico di molti degli imperi più floridi della storia. Il titolo della traduzione italiana del loro bestseller è particolarmente efficace: Perché le nazioni falliscono.

Politicamente questa faccenda è difficilissima da risolvere, e difatti negli ultimi vent’anni nessuno ci ha nemmeno provato. Anzi: dalla cedolare secca al Superbonus 110% si sono moltiplicate le agevolazioni con fondi pubblici ai proprietari di case. Mentre tassare la casa, anche quando è un investimento speculativo e non semplicemente un posto in cui vivere, è altamente impopolare. Ma ormai è evidente il conflitto tra gli interessi privati dei milioni di italiani proprietari di abitazioni “a reddito” o “in vendita” e l’interesse pubblico di permettere agli studenti di avere un posto dove dormire e alle nuove famiglie di trovare un’abitazione in cui crescere. Le soluzioni esistono: ci sono i progetti per grandi studentati sponsorizzati dai fondi europei, si può immaginare un massiccio piano di edilizia pubblica ecologica nelle zone “critiche”, da vendere a prezzi calmierati (riservati, per esempio, alle giovani coppie con figli). Basta decidere che oggi all’Italia servono prezzi delle case e degli affitti più bassi. Significa mettere la politica davanti al mercato.

pubblicato su Avvenire il 13 maggio 2023

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