Proposte e realtà della patrimoniale

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La patrimoniale proposta da Nicola Fratoianni di Leu, Matteo Orfini del Pd e sottoscritta da altri sette deputati dei due partiti potrà essere discussa nel dibattito sulla manovra 2021. La commissione Bilancio della Camera l’aveva bocciata per «carenza o inidoneità delle coperture», cioè perché non ci sono abbastanza soldi per introdurla (un difetto paradossale per un’imposta sui patrimoni). Dopo il ricorso dei firmatari, a cui ieri si sono aggiunti un altro deputato del Pd e Andrea Colletti del M5S, la stessa commissione ieri ha accettato l’emendamento incaricando il governo di raccogliere «più puntuali informazioni » sul gettito che questa norma potrebbe portare.

Le ragioni della bocciatura e dei dubbi tenici che restano su questa misura sono chiare. Per com’è stata concepita, la tassa progressiva sui grandi patrimoni con valore netto oltre il mezzo milione di euro deve sostituire l’imposta municipale unica (Imu) e l’imposta di bollo sui conti correnti bancari e sui conti deposito. L’emendamento propone di eliminare due imposte che ogni anno assicurano circa 25 miliardi di euro di entrate per mettere al loro posto un’imposta dalla base imponibile un po’ troppo vaga per capire quanto lo Stato potrà incassare. Nel mirino c’è «la ricchezza netta superiore a 500.000 euro derivante dalla somma delle attività mobiliari ed immobiliari al netto delle passività finanziarie, posseduta ovvero detenuta sia in Italia che all’estero ». Le proprietà immobiliari sono registrate e per valutarle abbiamo il Catasto. Il valore della ricchezza mobiliare non lo conosce nessuno. Questa categoria, come ricorda l’Enciclopedia Treccani, non include solo di liquidità e investimenti, ma anche «mobili propriamente detti, suppellettili, biancheria, vestiario, oggetti d’arte, gioielli, merci, materiali ecc.». Chiunque può provare a dare una valutazione di tutto ciò che possiede e rendersi conto di quanto l’esercizio possa rivelarsi difficile.

Le patrimoniali in vigore valgono 45 miliardi di gettito fiscale

La bufera politica scatenata dalla proposta di Fratoianni e Orfini – il cui sostegno parlamentare è molto debole – però non riguarda gli aspetti tecnici, ma l’intenzione: come se in Italia fosse inaccettabile parlare di tasse sulla proprietà. Eppure nella pratica politica le patrimoniali in Italia sono così accettabili che ne abbiamo già diverse, a partire da quelle che l’emendamento voleva cancellare. Le imposte sulla proprietà nel 2018 hanno portato 45 miliardi di euro alle casse pubbliche, cioè il 2,5% del Pil e il 6,1% dei 740 miliardi del totale delle entrate fiscali e contributive, calcola l’Ocse nel suo ultimo rapporto sulla tassazione pubblicato ieri. Di quei 45 miliardi, 22 vengono dalla tassazione degli immobili: 20,9 dall’Imu e 1,1 dalla Tasi. Altri 18,8 miliardi arrivano da tasse sulle proprietà finanziarie: 9,4 dalla tassa di registro, 7,4 da bolli e atti catastali, 1,7 miliardi dalle imposte ipotecarie. L’imposta su donazioni e successioni ha portato 820 milioni di euro e si aggiunge ad altre tasse e imposte patrimoniali minori che danno ognuna meno di mezzo miliardo di entrate allo Stato.

Il ruolo delle tasse sulla proprietà negli altri Paesi

Difficile dire se che quel 6,1% di contributo al fisco dalle imposte patrimoniali è scarso o eccessivo. Non è una percentuale lontana dal 5,6% della media dell’Ocse, l’organizzazione che rappresenta le economie avanzate. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito la quota di contributo al fisco che arriva dalle imposte sulla proprietà è superiore al 12%, cioè il doppio di quella italiana. In Francia è al 9%, in Spagna al 7,3%, in Germania solo al 2,7%. Rispetto al passato, il ruolo delle tasse sulla proprietà all’interno del sistema fiscale italiano è aumentato: era al 2,3% nel 1990, è raddoppiato al 4,6% nel 2000, si è portato al 4,8% nel 2010 per poi raggiungere l’attuale 6,1% soprattutto per l’inasprimento dell’Imu introdotta dal governo Monti con il decreto Salva Italia. Da tempo osservatori internazionali come il Fondo monetario e la stessa Ocse suggeriscono all’Italia di modificare il suo sistema fiscale per tassare meno il lavoro e di più le cose. L’obiettivo è creare un ambiente fiscale che favorisca l’occupazione e la crescita economica. Il rapporto dell’Ocse conferma che in Italia il grosso delle tasse arriva dal lavoro.

Da dove arriva il gettito fiscale in Italia

Il 25,6% delle entrate fiscali e contributive (190 miliardi di euro) è rappresentato dalle tasse sui redditi delle persone. L’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche, ha portato 180 miliardi di gettito nel 2018. Le imposte sulle rendite immobiliari e finanziarie danno incassi esigui: circa 10 miliardi di euro complessivi. Un altro 31% delle entrate arriva dai contributi dei lavoratori: sono 230 miliardi, di cui 43 pagati dai dipendenti, 154 dalle aziende, 33 dagli autonomi. Dal reddito e dal valore della produzione delle imprese lo Stato preleva il 7,7% del gettito, tra Ires (31 miliardi) e Irap (24 miliardi). La seconda grande voce di entrate, dopo quella lavoro-produzione, sono i consumi, da cui lo Stato preleva il 28,7% delle entrate fiscali e contributive (212 miliardi nel 2018). La sola Iva vale 109 miliardi di euro, le accise su carburanti, energia e alcolici 47 miliardi, le tasse sul tabacco altri 10,6 miliardi, quelle su azzardo e lotterie 9,3 miliardi. Le imposte sulla proprietà, con il loro 6,1%, sono la terza categoria di entrate. Resta uno 0,9% di gettito che arriva da altre tasse e imposte.

La chance della riforma fiscale

La riforma del fisco promessa dal governo per il 2021 potrà spostare il carico fiscale da una voce di entrate all’altra. Quella sarà l’occasione per prendere decisioni politiche su quanto del prelievo debba arrivare dal lavoro, quanto dalle rendite, quanto dai consumi e quanto dalla proprietà. Gli spazi di manovra sono stretti a causa dei due problemi fiscali cronici dell’Italia: da un alto l’evasione, stimata a a 108 miliardi di euro nell’ultimo rapporto del ministero dell’Economia sull’argomento; dall’altro un fisco pesante, che preleva ogni anno il 42,4% del Pil, quasi dieci punti percentuali in più della media dei Paesi Ocse (al 33,8%). Aumentare le tasse oggi in Italia è impensabile, soprattutto in anni in cui l’economia dovrà essere ricostruita per ripartire dopo il tornado del Covid-19. Anche abbassarle sarà difficile: già oggi le entrate della Repubblica italiana non bastano a coprire le spese, che comprendono anche circa 60 miliardi euro di interessi sul debito pubblico. A causa delle differenze tra entrate e uscite, per il 2021 il governo prevede un indebitamento netto dello Stato di 123,7 miliardi.

pubblicato su Avvenire venerdì 4 dicembre 2020

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