O Eula Biss è molto fortunata oppure questa poetessa e scrittrice americana ha il dono – tipico di certi artisti – di avvertire con qualche anno di anticipo i guai a cui sta andando incontro la società occidentale. Le è successo circa dieci anni fa, quando chiamata a vaccinare suo figlio ha scoperto il mondo che ha paura dei vaccini. Ha studiato che cosa c’è in gioco, ha investigato le metafore e i miti che coinvolgono la nostra idea di “immunità” e le sue implicazioni per gli individui e la società. È arrivata alla conclusione che non puoi davvero immunizzare tuo figlio, né te stesso, dal mondo. Ha pubblicato On Immunity nel 2014 ma sembra scritto durante la pandemia (in Italia Luiss University Press l’ha tradotto e pubblicato a inizio 2021, poche settimane dopo l’inoculazione del primo vaccino anti-Covid). In Having and Being Had, pubblicato negli Stati Uniti nel 2020 e stampato in Italia da Luiss University Press quest’anno con il titolo Le cose che abbiamo, Biss riflette sulle idee di consumo, lavoro, investimento e contabilità nella nostra società.
Il punto di partenza della riflessione di Biss è il disagio che le ha provocato l’acquisto della prima casa, evento che ha segnato il suo ingresso nella “classe media”. Di nuovo la scrittrice – che ha 45 anni, un marito e un figlio – ha anticipato i tempi, ragionando sul suo e il nostro rapporto con “l’avere” proprio alla vigilia della «fine dell’abbondanza», come l’ha definita Emmanuel Macron, o dell’inizio dell’era della scarsità di quasi tutto – dai chip alle auto fino al gas e più in generale l’energia – come sanciva un anno fa il New York Times.
L’anomalia della ricchezza diffusa
L’era della scarsità è quella dei prezzi alle stelle che fanno saltare i bilanci di famiglie e imprese. Per certi versi è un ritorno alla normalità. Nel 1958 John Kenneth Galbraith scriveva La società opulenta, inevitabile base teorica della riflessione di Biss. Galbraith all’inizio del suo libro più famoso ricordava che doveva scrivere della povertà, e invece ha finito per scrivere un libro sulla ricchezza: quasi tutte le persone in quasi tutte le nazioni per quasi tutta la durata della storia umana sono povere e quindi la povertà diffusa è la norma, è il benessere distribuito dei nostri tempi a rappresentare un’anomalia. E, come tale, ci ricorda l’attualità, non è scontato che duri per sempre.
Per Biss, in realtà, la classe media è solo relativamente minacciata dall’attuale corsa dell’inflazione. «Molte persone di classe media possono tranquillamente vivere con un po’ meno di quello che hanno senza cambiare radicalmente il loro rapporto con il consumo – spiega oggi –. Parte di ciò che sostengo in questo libro è che molti di noi che ci consideriamo “classe media”, in particolare nei Paesi occidentali, sono in realtà ricchi, anche se tendiamo a considerarci persone normali o addirittura in difficoltà». Chi è davvero in difficoltà sono i tanti lavoratori precari e sottopagati, riscoperti nei mesi del Covid. «Prima della pandemia non sentivo spesso parlare di lavoro in termini di “essenziale” o non “essenziale”, e questa è una distinzione rivelatoria, in parte proprio perché le persone che fanno i lavori essenziali, quelli che servono alla vita quotidiana di quasi tutti, tendono ad avere paghe basse e pochi benefit. La diseguaglianza nella sicurezza, non solo nel reddito, è una delle questioni al centro del libro».
L’ingiustizia alla luce del sole
L’autrice fino al 2021 insegnava scrittura alla Northwestern University. Non è un’economista, anche se per scrivere Le cose che abbiamo ha studiato ripartendo dai classici. Da outsider dell’accademia è in condizione di guardare la realtà economica della società contemporanea con occhi puliti, forse (volutamente?) naïf, puntando il dito su tutte le storture nascoste in piena vista.
Lo fa quasi in ognuno dei tanti brevissimi capitoli del libro, che è una sorta di diario di pensieri, conversazioni, episodi piccoli ed emblematici.
Una sua amica ha portato i figli a uno dei tanti parchi di divertimenti dove è possibile comprare, a un prezzo più alto, biglietti salta-fila, che permettono di ripetere le giostre senza aspettare il proprio turno. «Comprare un biglietto salta-fila – osserva – significa pagare per sminuire l’esperienza degli altri. Se alcune persone non fanno per niente la fila, allora altre devono stare in fila più a lungo. E questo, come può capire anche un bambino, è ingiusto».
Un’altra amica ai tempi dell’università le ha regalato le sue posate, perché erano vecchie e rovinate, ma poi le fa capire che la piacerebbe riaverle indietro quando, mesi dopo, scopre che con un trattamento banale forchette e coltelli tornano splendenti. La scrittrice non le restituisce: lei ha poco, la sua amica sembra ricca. Anni dopo capirà che l’amica più che ricca era indebitata. «Ho tenuto l’argenteria perché non sapevo distinguere tra credito e ricchezza – confessa –. Se avessi avuto occhio per le classi sociali, avrei capito di essere circondata da persone che vivevano di credito, in modo precario, e che passavano per membri del ceto medio. Il credito crea l’illusione dell’uguaglianza, perché tutti possiamo comprare le stesse cose a credito, ma non tutti possiamo ripagare il debito».
Davanti al consulente finanziario dell’università che le propone di investire su contratti future in vista della pensione, Biss si chiede «se non sto comprando sul serio i futuri di altre persone». Quando finisce per accettare la proposta di fare «investimenti aggressivi» dopo un po’ è tentata di richiamarlo, perché, scrive, «ora i miei soldi sono lì, aggressivi. Continuo a pensarci, a chiedermi cosa stanno facendo».
Ripensare l’idea di lavoro
Discute con il marito sulle difficoltà di un amico che ha aperto una griglieria e si è reso conto che i margini sono bassi. Biss risponde di trovare «noioso il calcolo per estrarre profitti dal lavoro altrui» e davanti all’irritazione del marito finisce per ammettere di non vedere «nessun legame tra quello che la gente ottiene dal lavoro e quello che merita davvero». Riflette con una collega se lasciare il posto all’università (cosa che poi farà) e le dice: «Avrei comunque un sacco di lavoro da fare: il lavoro della scrittura, il lavoro della ricerca, il lavoro legato alla casa e al giardino e il lavoro di occuparmi di un bambino. Il lavoro in realtà interferisce con il mio lavoro, e voglio lavorare di meno per avere più tempo per lavorare».
Tanto che poco dopo la pubblicazione del libro, Biss ha lasciato la Northwestern University, anticipando, anche in questo caso, il fenomeno delle “Grandi dimissioni”. «È stata la mia risposta alle domande su tempo e lavoro sollevate dal libro. I drammatici cambiamenti che la pandemia ha prodotto nella mia vita quotidiana hanno contribuito a quella decisione, quei cambiamenti mi hanno ricordato che un cambiamento drammatico era possibile e superabile – racconta –. Non credo di essere sola in questo, e credo che lo sconvolgimento degli ultimi anni ci abbia indotto, come società, a ripensare radicalmente il lavoro».
Non ci sono risposte né una morale nel libro di Biss. C’è però una spinta a sollevare la testa e guardare dall’esterno la società in cui viviamo, per vedere quanta importanza continuiamo a dare (a livello sociale e a livello personale) al denaro e alle cose e per chiederci se questa scala di valori alla base del sistema, diventata così comune da apparire naturale, ci piace davvero, se ci rende più o meno felici.
I giovani e la fine del capitalismo
Anche le nuove generazioni, secondo la scrittrice, non fanno eccezione. «I giovani non sono più liberi da una mentalità capitalista, anche se potrebbero essere pronti a condannare il capitalismo. Ma le stesse persone che lo condannano spesso sono anche desiderose di partecipare – ricorda –. Ho notato per esempio che i giovani scrittori tendono a considerare imperativi assoluti gli aspetti di mercato del loro lavoro, la pubblicità, l’autopromozione. Molti si aspettano di fare soldi come scrittori e non hanno chiaro il senso positivo di una vita dedicata a qualcosa che probabilmente non produrrà grandi redditi».
Il sottotitolo dell’edizione italiana è “essere e avere alla fine del capitalismo”. L’autrice non è così convinta che siamo in questa fase storica, almeno non ancora. «Non so quanto siamo vicini alla fine del capitalismo, ma penso che sia sempre più chiaro, come hanno osservato Piketty e altri economisti, che il capitalismo incontrollato sta causando instabilità sociale ed è distruttivo per molte delle cose che ci stanno a cuore: ad esempio la famiglia, la comunità, l’arte o la cultura – conclude Biss –. Quindi, non è mai troppo presto per iniziare a escogitare un’alternativa. Il capitalismo certamente non durerà per sempre, nessun sistema economico si è dimostrato eterno e, come ha avvertito David Graeber, se non immaginiamo qualcosa di meglio del capitalismo, è probabile che otterremo qualcosa di peggio».
pubblicato su L’Economia Civile di Avvenire il 12 ottobre 2022