I conti del food delivery non tornano


Non solo i rider, anche le società del food delivery sono disperate. Disperate come possono essere imprese il cui modello di business, comunque la si metta, non sta in piedi: gli incassi non sono mai sufficienti a coprire le spese. Per quanto i grandi gruppi del settore facciano economia sulle spalle dei ragazzi che sfrecciano in bicicletta per le città e risparmino su tutto il possibile (compresi i controlli igienici sui contenitori in cui viene trasportato il cibo) i conti non tornano. Perché, essenzialmente, non si può pretendere che con qualche euro pagato dal cliente per la consegna si possa coprire il costo di una persona che va a ritirare un piatto al ristorante e lo porta rapidissimamente a chi lo vuole mangiare. È impossibile, a meno che il business non diventi davvero enorme e la società del food delivery non ci lavori in monopolio.

Nell’attesa di una redditività che forse non arriverà mai, i conti del settore sono terribili. La divisione Eats di Uber, quella commissariata in Italia, nel 2019 ha incassato 1.383 miliardi di dollari e ne ha persi 1.372. Per ogni dollaro entrato, insomma, ne sono usciti due. La tedesca Delivery Hero, che in Italia lavorava con il marchio Foodora poi ceduto alla spagnola Glovo, ha perso 648 milioni su 1.238 milioni di fatturato. Sui conti di Glovo, che a differenza di Uber e Delivery Hero non è quotata, c’è più mistero. L’unica cosa certa, come ha ammesso qualche mese fa il il co-fondatore Sacha Michaud, è che al momento si può solo sperare di raggiungere un giorno la redditività. Lo spera anche Deliveroo, che intanto ha chiuso il 2018 con 232 milioni di sterline perse su un incasso di 476 milioni. L’unica che sta in equilibrio, ed è riuscita anche a fare 80 milioni di profitti l’anno scorso, è Just Eat, che però ha un modello diverso, “ibrido”: l’app nella maggioranza dei casi affida le consegne ai ristoratori, mentre si occupa solo di procurare i clienti.

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