Quando la Banca Mondiale nell’estate del 2017 ha lanciato i primi pandemic bond in pochi ci hanno fatto caso. Ora che «la minaccia di una pandemia è diventata molto reale», come ha ammesso il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), attorno a queste obbligazioni si è accesa molta curiosità e si è diffusa anche qualche teoria del complotto.
I pandemic bond non servono a scommettere sulle pandemie, ma dovrebbero aiutare la Banca mondiale a finanziarsi con facilità e rapidità nel momento in cui fosse necessario aiutare i Paesi poveri a contrastare la diffusione di una malattia. Questo è il senso della Pandemic Emergency Financing Facility (Pef), messa in piedi nel 2016 sulla scia della terribile esperienza dell’epidemia di Ebola nell’Africa occidentale. La Pef è un meccanismo che tra strumenti di cassa “pronti” e assicurazioni garantisce alla Banca Mondiale fondi aggiuntivi oltre a quelli che gestisce attraverso l’International Development Association, l’associazione che raccoglie denaro tra 60 nazioni più ricche per aiutare i Paesi più poveri e ha già annunciato 12 miliardi di dollari di dotazione per interventi contro il Covid-19. I pandemic bond fanno parte del lato “assicurativo” dell’attività del Pef.
I primi e unici due pandemic bond della Banca Mondiale sono stati emessi il 28 giugno del 2017 tramite la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, per un incasso totale di 320 milioni di dollari. Sono due obbligazioni differenti. La prima, chiamata di Classe A, è un bond da 225 milioni di dollari che paga un tasso annuo del 6,5% in aggiunta al Libor in dollari a 6 mesi e serve a coprire spese per gestire pandemie influenzali o da coronavirus. La seconda, di Classe B e più rischiosa, è un bond che copre anche interventi contro i filovirus (come l’Ebola), la febbre di Lassa, la febbre emorragica Congo-Crimea e la febbre della Valle del Rift. Ha raccolto 95 milioni di dollari e paga un tasso di 11,1 punti percentuali sempre in aggiunta al Libor in dollari a 6 mesi (che al momento è allo 0,9% ma fino a poche settimane fa era attorno al 2%). Entrambe le obbligazioni scadono il 15 luglio 2020, ma sono rinnovabili mensilmente per un massimo di altri 12 mesi.
Gli alti rendimenti di queste obbligazioni sono paragonabili a quelli di strumenti finanziari ad alto tasso di rischio. Il rischio, in questo caso, è quello di perdere anche l’intero capitale investito nel caso si verifichi una pandemia. I criteri per definire questa eventualità, il cosiddetto trigger che fa scattare il mancato pagamento, sono descritti nelle 386 pagine del prospetto delle obbligazioni e sono estremamente intricati.
Per ogni tipologia di malattia ci sono condizioni specifiche. Nel caso di virus di tipo “coronavirus”, per il bond meno rischioso la perdita può arrivare al massimo al 16,67% del capitale, per quello più rischioso fino al 100%. Il trigger scatta se sono soddisfatti sette criteri che riguardano la diffusione del virus, la sua distribuzione geografica, la rapidità, l’impatto. Per il bond meno rischioso il criterio principale è la presenza di almeno 2.500 vittime nelle prime 12 settimane da quando la diffusione del virus è stata comunicata all’Oms (data che scatta il 23 marzo per il Covid-2019). Per quello più rischioso il criterio è variabile a seconda del numero di vittime e arriva alla perdita del 100% del capitale se i morti superano i 2.500. Non c’è nessun criterio, invece, che riguardi la dichiarazione di “pandemia” da parte dell’Oms (e quindi sono infondate le accuse all’Oms di non dichiarare la pandemia per aiutare le banche).
Le formule per determinare se gli eventi trigger si sono verificati sono estremamente complesse. La Banca Mondiale ha affidato ad Air Worldwide Corporation – società di Boston specializzata in questo tipo di obbligazioni che vengono definite “catastrofali” – la responsabilità di calcolare se i bond andranno rimborsati o meno.
Già nel 2018, quando la diffusione dell’Ebola in Congo ha ucciso più di 2mila persone, sembrava che questi bond non sarebbero più stati rimborsati, ma questo non è successo perché per tutte le pandemie globali o regionali le regole indicate nel prospetto prevedono tra i criteri la presenza di almeno 20 morti in un secondo Paese oltre quello di origine. In quel caso le vittime sono state quasi tutte in Congo (e “solo” 4 in Uganda).
C’è il rischio che anche stavolta qualche “clausola” del prospetto protegga di nuovo gli investitori, nonostante la diffusione mondiale del coronavirus Sars-CoV-2 abbia già contagiato 113mila persone uccidendone 4.012 in 110 Paesi secondo gli ultimi dati dell’Oms.
«Spero che i trigger stavolta scattino – ha spiegato Olga Jonas, ricercatrice di Harvard ed ex macroeconomista della Banca Mondiale – anche se in ogni caso l’esperienza di questi bond è stata molto deludente. Per il coronavirus la Banca mondiale da queste obbligazioni può ottenere al massimo 196 milioni da dividere tra 67 nazioni povere. Sono 8 cent ad abitante… E il costo del bond, tra interessi e commissioni, è di circa 150 milioni di dollari, soldi prelevati dai fondi che servono ad aiutare i Paesi poveri».